La storia della Lesa

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Un omaggio alla tradizione...

“la lesa” era lo slittino con cui i nostri nonni si divertivano negli inverni che furono…,
… si costruiva un canale di ghiaccio, lungo oltre mezzo chilometro...

Da ultimo quarto di luna di Ghivarello Melchiorre
LA LESA
(lo slittino)
La “lesa” si potrebbe definire un’invenzione pinese, in particolare dei contadini di valle Miglioretti. Era un divertimento che in un periodo neppure molto lontano, riusciva a far provare le emozioni della velocità sulla neve. Durante gli inverni più lunghi, quando abbondanti nevicate coprivano ogni cosa e i venti freddi del nord bloccavano ogni attività lavorativa, nasceva la voglia di creare qualcosa per divertirsi e stare insieme.
Non tutti gli inverni erano adatti per costruire la “lesa”. Bisognava attendere quello “giusto”, con tanta neve tra Natale e Capodanno e freddo polare, cosa che succedeva solo a distanza di decenni.
Erano proprio questi lunghi intervalli di tempo a creare curiosità ed euforia tra i bambini ed entusiasmo e nostalgia tra adulti e anziani.
Quando si intuiva che l’inverno poteva essere quello giusto, era sufficiente che qualcuno lanciasse l’idea e in un baleno la notizia faceva il giro del paese.
Numerose persone, munite di pale, raggiungevano valle Miglioretti, in zona Casaverde, per costruire una pista ghiacciata lunga oltre mezzo chilometro.
La zona era ideale. Riparata dal sole, con una pendenza che permetteva ai “lesèt” (slittini) di raggiungere una velocità superiore agli 80 km/h. L’arrivo era leggermente in salita, in modo da rendere più dolce l’arresto della corsa e meno rovinose le cadute. Costruire la “lesa” costava praticamente nulla: neve, acqua e freddo ce n’erano a volontà, come pure la manodopera. Tutti partecipavano con entusiasmo per avere poi il diritto di correre con il proprio “leset” sulla pista.
La costruzione della “lesa” era un impegno non indifferente che richiedeva alcuni giorni di lavoro e molte persone divise in squadre, attente  a seguire i preziosi consigli dei più anziani, gente che di “lesa”  se ne intendeva. Un filo ben teso segnava il tracciato che veniva prima livellato con della neve bagnata e compressa, in modo da creare una base solida e liscia, onde evitare qualsiasi sobbalzo.

Dentro un grosso “arbi” (bigoncia di legno), una squadra mescolava la neve all’acqua per ottenere l’impasto da usare per costruire sia la base che le sponde del canale: il gelo della notte l’avrebbe poi trasformato in ghiaccio. Ognuno aveva il proprio compito: chi preparava la base, chi portava la neve nella bigoncia, chi prelevava dallo stagno d’acqua e chi costruiva le sponde. Alcuni muratori, con i loro attrezzi, rifinivano tutto con la massima cura. Così, metro dopo metro, il canale di ghiaccio prendeva forma e si allungava verso valle. Era un lavoro di precisione: 15 cm l’altezza delle sponde, 35 cm la larghezza interna.
Lo slittino, in legno duro (quasi sempre di mandorlo o pero), era largo 33 cm e doveva correre comodo nel canale, con un minimo di tolleranza ai lati.
Per realizzare la “lesa” era necessario chiudere la strada al traffico (l’attuale via Casa Verde). Gli abitanti del posto, che per la “lesa” rinunciavano volentieri all’uso della loro strada, facevano scorta dei generi alimentari occorrenti per tutto il periodo di chiusura, a volte 15-20 giorni. Una volta preparata la pista, impegnativa diventava la sua manutenzione. Alla sera, al chiaro di luna, si trasportava l’acqua ai bordi della pista, con dei “sëbber” (mastelli di legno).
A intervalli di alcune ore, la pista veniva bagnata. Con un innaffiatoio si versava l’acqua su un sacco di tela che, trascinato lentamente, lasciava all’interno della pista un sottile strato d’acqua che subito ghiacciava, rendendo le sponde e la base della “lesa” lisce come vetro. Fra una innaffiata e l’altra, gli addetti ai lavori si recavano nella stalla più vicina, a bere un bicchierino e riscaldarsi un po’. Verso mezzanotte, dopo l’ultima annaffiatura, ognuno tornava a piedi alla propria abitazione, sovente con le brache dure come un baccalà, causa gli spruzzi d’acqua venuti addosso. Al mattino le discese iniziavano prima dell’alba. Nel silenzio di quell’ora, in tutta la vallata si udiva il rumore che pareva il crepitio di una mitragliatrice. Erano gli slittini che velocissimi sfrecciavano sulla pista ghiacciata. Più tardi, quando la temperatura aumentava, le discese venivano interrotte. Quello era pure il momento in cui la “lesa” veniva ricoperta di neve. Questa, tagliata a forma di rettangoli con delle pale di ferro, veniva sistemata sulla pista, in tutta la sua lunghezza. Un’operazione che serviva a ripararla dal sole e mantenerla il più a lungo possibile. Al calar della sera la si scopriva dai rettangoli di neve e si effettuavano le riparazioni, con neve bagnata, nei punti dove si erano verificati cedimenti o rotture. Nei giorni di festa, intorno alla pista si radunava moltissima gente. Molti curiosi arrivavano anche dai paesi vicini, ma a chi aveva un “lesèt” nessuno negava  una discesa sulla pista. Il divertimento si concludeva sempre con un pranzo aperto a tutti a base di tacchino.

Prima di decretare la fine della “lesa”, si tagliava la testa al “pito” (tacchino). Nel punto in cui lo slittino raggiungeva la massima velocità, veniva appeso sulla pista un tacchino (naturalmente morto). Con una sciabola di legno, nel momento in cui il “lesèt” gli passava sotto, si tentava di decapitarlo. Era una competizione che poteva durare anche delle ore. Terminava solo quando qualcuno riusciva a tagliare la testa al tacchino e se lo portava a casa come trofeo.
L’ultima “lesa” è stata costruita nel 1969.

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